Possibilità

Ho cominciato ad interessarmi al mondo in un contesto che amava Danilo Dolci.

Per questo ho sempre declinato la parola “potere” nella sua accezione di “possibilità”.

Non ho mai combattuto contro il potere; mi sono sempre battuto per la redistribuzione del potere, delle possibilità, anche quando sono stato io ad averle.

Poche volte è capitato ma sì, è capitato.

Possibilità piccolissime, che non ho mai scelto di tenere solo per me e che ho rifiutato quando erano mia esclusiva.

Questa per me è anarchia.

Il mio modo di stare al mondo.

Agire da individuo, anche in solitudine, senza sentirsi individuo solo.Il teatro per sua natura dovrebbe essere vissuto così. Io credo. O almeno, lo vivo così.

Una volta un regista di merda mi disse: “la cosa fondamentale è che ti trovi un posto dove nessuno ti dice: alle 17 tocca a me”.

Mi fece rabbia ma, più che altro, mi spaventò. Ho scoperto poi che troppi individui che detengono le possibilità di molti agiscono prevalentemente per conservare per se queste possibilità.

Sarei tentato di preparare uno spettacolo per raccontare come chi detiene il potere di autotuteli; anche in teatro.

Così potrei raccontare come chi ha accesso ai finanziamenti ministeriali sta programmando in prevalenza altri che hanno accesso ai finanziamenti ministeriali, per raggiungere quei parametri che consentano reciprocamente di confermare il proprio status, lo stesso status che tiene lontano dal sostegno di stato altre compagnie, magari più deboli, magari da sostenere con qualche bando per giovani che a sua volta esiste perché richiesto da altri parametri che vanno rispettati per confermare altri status.

Potrei raccontare di come nella fortezza vuota del teatro il posto più comodo è a cavalcioni delle mura, una gamba qua, una gamba la.

Potrei, perché potrei, raccontare di come da venticinque anni guardo questo mondo del teatro, di possibilità recluse e barattate, dal mio teatro che non esiste oltre il fossato, oltre la terra sconsacrata, oltre le fogne della fortezza.

Non lo faccio però. Non avrebbe senso.

Gli spettatori, inconsapevolmente, pagano già il prezzo di tutta questa marcescenza di possibilità. Non meritano altra sporcizia esplicitata. Ingoio il respiro quindi. Regalo un fiore al primo che passa perché in lui è il mio teatro.

Uso la poca energia che ho da sempre per cercare di mettere nel corpo degli altri dei semi di possibilità; ritaglio spazi dove nessuno guarda, dove nessuno ha voglia, dove a nessuno conviene. Neppure a me. Posso solo quello che sono, e sono pure sbagliato, stanco, rotto. Eppure non lesino quello che sono a nessuno.

Perché c’è sempre qualcuno che ha fame e sete, anche del mio niente. In quella fame ed in quella sete è possibile aprire nuove possibilità da condividere.

Le fame, la sete, il desiderio: condivisi aumentano invece che diminuire.Questo vuol dire essere anarchico per me. Questo è il mio teatro inesistente.

È leggero e pesante assieme.

Spero di averti risposto. Di averti chiarito perché, malgrado tutta la stanchezza, io resto ancora qua.

Teatro è sociale

Non ho mai amato il termine “teatro sociale”, ho sempre evitato di applicarlo al mio lavoro anche quando rientrava nell’ambito che viene definito in questo modo.Il teatro è insitamente sociale; non esiste un teatro “asociale”, per capirsi, il teatro è sociale e politico per sua stessa origine e la funzione, o le funzioni, “sociali” del teatro sono imprescindibili da esso. Le mettiamo in azione, per negazione, anche quando ci impegniamo a fare un teatro del “disimpegno” o di “intrattentimento”.

Ci rifletto anche adesso.In questi mesi l’unico “teatro” che è stato possibile, quasi sempre, quasi in tutte le regioni, è stato un teatro che avesse l’etichetta “sociale”. Cioè un teatro che avesse come partecipanti degli individui il cui “bisogno” di teatro era “certificato”.

Scusate se metto tante virgolette; ma sono parole su cui vorrei posaste la vostra attenzione.

E’ stato consentito, o viene considerato più “essenziale” e da sempre viene finanziato per altre vie, un teatro i cui partecipanti, spettatori o attori, vengono “certificati” come “bisognosi” di teatro. E’ una situazione a cui siamo arrivati attraverso un processo di cui non mi interessa discutere adesso e qui e sul quale mi astengo da un giudizio, al momento, perché quello che mi interessa al momento è altro: il fatto che esista un teatro certificato come utile ed un teatro che questa certificazione non ce l’ha; un teatro la cui funzione sociale viene portata a vista da una definizione, ed un teatro la cui funzione sociale viene ignorata, nascosta, in alcuni momenti denigrata. Ossimori; all’italiana. Come il “riaprire i teatri” fatto coincidere con “facciamo spettacolo senza pubblico in sala”.

Tralasciando il fatto che moltissime patologie, (soprattutto riguardanti la mente), vivono ancora in Italia uno stigma sociale e sono vissute nel silenzio o nell’intimità della famiglia e dell’enturage amicale, e che spesso incontrano il teatro attraverso quello “non certificato come sociale”, tralasciando questo dico: siamo davvero convinti che il teatro non agisca sull’intera cittadinanza attraverso la sua funzione sociale?

Siamo sicuri che sia essenziale, anche in certi momenti storici, anche nell’inconsapevolezza degli spettatori, a tutta la cittadinanza senza che essa debba essere divisa in “malati e sani”? Insomma…è possibile che la funzione sociale del teatro si attivi esclusivamente quando essa ne diventa l’obbiettivo dichiarato?

Io sono convinto del contrario; cosiddetti “malati”, cosiddetti “non liberi”, cosiddetti “non autonomi” traggono dal teatro lo stesso identico bisogno di tutti gli altri e che, in una società malata la definizione di malattia e dei relativi bisogni e dei collegati supporti che il teatro e l’arte possono dare deve essere decostruita e ricostruita con maggiore conoscenza della realtà.

Il teatro nutre la società con modalità simili a quelle con cui agisce il lombrico; metabolizzando e fertilizzando.

I cosiddetti “malati” trarrebbero più giovamento dal vivere in una comunità interamente rimestata e bonificata dal lombrico “teatro”; ed i cosiddetti “sani” si avvicinerebbero all’esserlo realmente.

La funzione sociale del teatro ha più efficacia, forse “sola” efficacia, quando è rivolta a tutta la comunità (sociale, appunto).

Io mi ritengo un insano non certificato; ecco perché egoisticamente lotto per un teatro che venga reso possibile a tutti, anche adesso, adesso.

Teatro per il teatro

Quando si riflette, forse anche troppo e da troppo tempo, di “crisi del pubblico” in teatro si ripete spesso che “il teatro contemporaneo è diventato troppo autoreferenziale”.

E’ vero.

L’autoreferenzialità del teatro contemporaneo e di molti teatranti, credo qualche volta di poterci stare dentro anche io, questa forma di masturbazione per sua definizione non prolifica è un grave problema.
Eppure il teatro “contemporaneo” che “in parte” è affetto da questo male è programmato in una decisa minoranza dei teatri e degli spazi teatrali italiani.Com’è possibile che la responsabilità dello scostamento del pubblico sia dovuto a questo?
Dovrebbe, la disaffezione del pubblico, essere un problema limitato solo ad alcuni teatri che programmano “il contemporaneo” o “la ricerca”.
La realtà è che oltre l’80% dei teatri italiani (percentuale ad “occhio” scusate, ma credo sia abbastanza verosimile) programma un teatro che è figlio della necessità di sbigliettare e si considera lo “sbigliettamento” (il numero di biglietti venduti) un parametro di gradimento ed affezione. Per farlo però si ospita un teatro che ha ritmi, temi e protagonisti della televisione o al massimo del cinema; un teatro di rappresentazione, un teatro di mera visione che effettivamente a vederlo dalla settantesima fila o a vederlo in tv c’è poca differenza.

Non sarà che questo disaffeziona gli spettatori?

Non sarà che considerare il teatro un prodotto di consumo da collocare sul mercato disaffeziona gli spettatori?

Non sarà che cercare di assecondare gusti e mode del momento disaffezioni gli spettatori?
Perché se la stragrande maggioranza dei teatri italiani programma e produce questo genere di teatro “accondiscendente” e “commerciale” la responsabilità dello svuotamento delle sale viene dato al teatro contemporaneo?
Non sarà che il pubblico di un teatro che non è più teatro non trova più giustamente la motivazione per alzarsi ed andare a teatro se non per un mero fatto sociale?
Il teatro contemporaneo deve combattere la propria autoreferenzialità; eppure mi appare un semplice fatto statistico dire che è da li, dal teatro contemporaneo, che bisogna ripartire per far crescere il pubblico nelle sale.

Da un teatro che crea relazioni e comunità, fatto anche e soprattutto di piccoli numeri almeno in una fase iniziale, perché si radici.

Soprattutto un teatro che non sia accondiscendente dei gusti, ma che sappia stupire, mettere in dubbio, appassionare.

Un teatro che sia fedele a se stesso e non frutto di operazioni di marketing; un teatro che non debba scimmiottare altri linguaggi che, nel proprio ambito, sono ovviamente più potenti.
Insomma.

Ci vuole teatro per aiutare il teatro; mi pare ovvio.

Ci vuole teatro per avvicinare al teatro; è molto scontato.
Occorre aumentare le occasioni di incontro tra il teatro e le persone, ed il teatro farà il suo lavoro se è sincero.

Trasformare il teatro in altro non serve ad avvicinare le persone al teatro, ma serve soltanto a sbigliettare di più vendendo qualcosa che non ha alcun impatto sociale e non arriva alla biografia delle persone.
Chi non ha fede nel teatro, chi non crede nel teatro, per coerenza dovrebbe smettere di dire che si occupa di teatro.

Non abbiamo bisogno di burocrati in teatro e non abbiamo bisogno di commercianti; abbiamo bisogno di teatranti.
Abbiamo bisogno di teatro.

Lettera aperta a cittadini, teatranti, istituzioni culturali, amministratori.

<p value="<amp-fit-text layout="fixed-height" min-font-size="6" max-font-size="72" height="80">Manca il teatro.Manca il teatro.

Vorremmo dire “ci manca” ed allora sembrerebbe una frase da teatranti o da addetti ai lavori.

A chi manca?

Manca alla comunità, consapevole o non consapevole di questo, esso manca alla comunità.

Non stiamo pensando al teatro come intrattenimento; sebbene il teatro sia anche questo e per molti sia “solo” questo; non stiamo parlando di un prodotto di consumo malgrado per molti sia diventato questo.

Del teatro come intrattenimento possiamo fare a meno in questo periodo complesso; del teatro come prodotto di consumo possiamo fare a meno sempre.

Parliamo del teatro nella sua funzione più antica e sostanziale: la capacità di mettere in relazione una comunità con sé stessa, di farle metabolizzare il tempo e lo spazio che stanno vivendo.

Il teatro è l’unica delle arti e dei linguaggi che ha questa capacità in quanto si basa su un dialogo; tutte le altre forme d’arte, e lo stesso teatro quando è vissuto in differita e senza condivisione di spazio come nello streaming o alla televisione, hanno al centro una comunicazione unilaterale: qualcuno dice ed altri ascoltano. Nel teatro, al contrario, la comunicazione è sempre bilaterale: l’artista ascolta lo spettatore e lo spettatore ascolta l’artista e da questa disponibilità reciproca nasce il dialogo.

Per questo noi di Accademia Minima, assieme ad altre compagnie teatrali italiane, abbiamo deciso da gennaio, superato il periodo delicato delle “festività”, di ricominciare ad incontrare il pubblico.

Si, ricominceremo a fare spettacolo.

Esiste la possibilità di farlo, sebbene economicamente dispendioso, muovendosi tra le maglie dei decreti e dei regolamenti attualmente in vigore.

Noi la sfrutteremo. Sfrutteremo la fallacia delle stesse regole che sono state imposte.

Sarà un atto di disobbedienza civile, a dei divieti assurdi, che rispondono esclusivamente alla volontà politica di una classe dirigente che legifera su questioni che non si è presa la briga di conoscere prima.

La nostra non è una disobbedienza insensata; del virus abbiamo paura, crediamo sia necessario combatterlo, crediamo sia necessario il rispetto del protocolli sanitari, crediamo che sia importante il distanziamento fisico, che sia necessaria la mascherina, che siano necessarie le opportune azioni di sanificazione degli spazi. Noi non siamo dissennati; cerchiamo e ci domandiamo però il senno di chi, malgrado sia evidente che il teatro (soprattutto nelle piccole realtà e meno facilmente nei grandissimi teatri) sia fruibile in una sicurezza maggiore rispetto ad altri spazi a cui, al contrario, è concesso l’accesso.

Si dice che i teatri devono essere chiusi perché lo spostamento del pubblico per raggiungerli è rischioso; bene, noi faremo spettacoli per un massimo di dieci quindici spettatori, organizzando loro i percorsi da seguire da casa allo spazio dove verrà allestito lo spettacolo, in modo che percorrano strade secondarie senza mai incontrarsi; laddove possibile li andremo a prendere, casa per casa, uno ad uno e li accompagneremo monitorando che rispettino le regole.

Si dice che i teatri siano poco sicuri perché al chiuso; e noi prenderemo i regolamenti interni a spazi simili, come le chiese, e raddoppieremo le misure di sicurezza. Laddove sono previsti un metro e mezzo di distanza tra persone, noi avremo tre metri di distanza tra le persone.

Si dice che i teatri siano pericolosi perché le persone dovrebbero stare nello stesso spazio, al chiuso, per troppo tempo; noi offriremo spettacoli che durino meno di una messa o della fila alla cassa di un negozio di articoli sportivi e, laddove possibile, faremo spettacoli brevissimi ed all’aperto.

Si dice che le persone non abbiano intenzione di venire in teatro in questo momento perché spaventati: bene, noi abbiamo spettatori che ci chiedono da mesi di riaprire e che solo allo spargersi della voce stanno già chiedendo di prenotarsi.

In questi mesi abbiamo continuato a lavorare duramente; abbiamo evitato lo streaming di spettacoli e corsi perché lo consideriamo fuorviante e dannoso per il teatro stesso, ed allora ci siamo chiusi in sala come professionisti (ciò era consentito dai decreti) ed abbiamo continuato a lavorare, migliorarci, crescere.

Adesso stiamo provando gli spettacoli che porteremo fuori dalla sala di lavoro, negli spazi dove potranno incontrare il pubblico fin dal 16 gennaio prossimo.

Il teatro, proprio in questi momenti, diventa necessario; perché è necessario che la comunità attraverso l’incontro tra attori e spettatori sia accompagnata a leggere ed a riconoscere sé stessa anche all’interno di una pandemia.

Il teatro, del resto, non si è mai fermato nella storia; laddove lo abbiamo visto sparire era semplicemente costretto alla clandestinità.

Noi non voglia essere clandestini nella nostra comunità, noi vogliamo essere cittadini delle nostre città ed esercitiamo la cittadinanza attraverso la funzione sociale del teatro che è insostituibile.

Con questa nostra invitiamo la cittadinanza, i colleghi delle altre compagnie teatrali, gli spazi culturali, le amministrazioni locali del territorio e la direzione artistica dei teatri di Siena e degli altri teatri della provincia ad aderire a questa nostra azione di disobbedienza civile, ospitare gli spettacoli che siamo pronti a portare in pubblico (vi aiuteremo noi affinché tutto resti legale e ci assumeremo ogni responsabilità) ed a coordinarci per realizzarla.

Francesco Chiantese

Accademia Minima APS

http://www.accademiaminima.it

Sullo streaming

“Perdonatemi, ho scelto di scrivere per la prima volta in vita mia il mio intervento; perché non vorrei usare le parole in maniera inadeguata.

Ho difficoltà ad arrivare a fine mese; devo occuparmi della mia sussistenza, e come ho potuto notare anche in questi giorni la “sussistenza” ci spinge ad allargare le maglie del linguaggio e della sua etica. Non vorrei incorrere in questo errore.

Ho sentito dire che il teatro in streaming non è teatro e poi vendere corsi di teatro on line; ho sentito dire che dev’essere un momento “di passaggio” e poi vedo investire soldi pubblici in piccole e grandi piattaforme di lancio dello streaming; ho sentito dire che è bello affrontare viaggi alla scoperta di nuovi linguaggi, ma nessuno ha ricordato che questi viaggi sono pagati con soldi sottratti ai fondi, miseri, per il teatro.

Cosa fare in questo tempo “sospeso” e con questi fondi “da spendere”?

Banalmente continuare a fare teatro; spalmare i finanziamenti ottenuti su realtà teatrali che, malgrado costituiscano il tessuto culturale delle nostre comunità, sfuggono ai finanziamenti ministeriali, permettere alle compagnie di provare maggiormente (retribuite) senza dover correre a sfornare nuove produzioni.

Tanto si poteva fare, di maggiormente coerente, prima di spostare fondi ed energie su altro.

Il teatro e la danza sono le uniche arti performative che non differiscono dalla vita se non per la possibilità di controllarne alcuni parametri; come nella vita, così nel teatro e nella danza, ogni istante non sopravvive all’istante successivo.

Il tempo del teatro, per questo, non può essere che lo stesso per attore e spettatore.

Se mi venisse detto di eccitare oggi il mio amante per fargli avere un orgasmo domenica mattina, mi farei dei problemi.

Qual’è il luogo di questo dialogo?Il luogo del teatro è il corpo dello spettatore.

L’interiorità dell’attore si fa espressione nello spazio e nel tempo fino a raggiungere, attraverso i sensi, il corpo dello spettatore, varcare il confine della sua pelle, ed entrare in lui.

E’ li che lo sforzo dell’attore accolto dello spettatore diventa spettacolo.

L’espressione dell’interiorità dell’attore si lascia metabolizzare dal sistema neurale e dal cervello dello spettatore fino ad assumere una forma che dipende in buonissima parte dalla biografia dello spettatore, che ne legge i segni, ne assorbe i sintomi, e da vita a qualcosa di nuovo, un nuovo bios: lo spettacolo.

E’ per questo che la porzione di vita più vicina all’atto teatrale è l’atto sessuale.

L’attore ha il compito di fecondare lo spettatore; lo spettatore ha il compito di accogliere il seme dell’attore e fare si che il teatro sia.Perché questo avvenga c’è bisogno di piacere; si, non è una novità, il motore centrale del teatro è il desiderio, il desiderio del piacere.

Siamo eredi di Dioniso.

Il teatro e la danza, come l’atto sessuale, necessitano di esseri umani non chini su se stessi, ma propensi all’ascolto ed al dialogo tra di loro; come due amanti.Il teatro è intimità.

Lo streaming, come la ripresa televisiva, sono una forma di comunicazione unilaterale: lo spettatore non può interagire con l’attore, l’attore non può ascoltare lo spettatore.Nella migliore delle ipotesi è cattivo sesso ma, di sicuro, non è prolifico.

Un teatro, per nascere nell’atto teatrale, non può avere uno schermo a fare da preservantivo.Gli attori talvolta si sentono dio, è vero, ma non hanno il dono del concepire in maniera immacolata.

Sappiamo tutti come si chiama l’osservazione, a distanza, in una collocazione extradiegetica, di un atto intimo.Si chiama pornografia.

Le piattaforme per lo streaming del teatro, di un atto inrimo, non sono simili a “netflix” ma piuttosto a “youporn”.

Certo; in questo momento di difficoltà sentiamo tutti il bisogno forte di occuparci di sussistenza.

Ci sono dei supermercati che prendono dipendenti per poche ore nel periodo natalizio; c’è anche l’elemosina come elemento da prendere in considerazione, e si, ovviamente, c’è anche la pornografia.

Non se ne deve fare una questione di morale.

Discuto spesso con amiche femministe che sono a favore di una prostituzione controllata; mi viene detto che ciascuno “con il proprio corpo” può fare quello che vuole; esattamente come mi viene detto che ciascuno, con il proprio teatro, può fare quello che vuole.Io credo però che dare un prezzo al proprio corpo voglia dire anche affermare che “un corpo può avere un prezzo” e contribuire a determina il prezzo dei corpi, anche del mio corpo, sul mercato.

Allo stesso modo chi crede che fare del proprio teatro “quello che si vuole” non influisca sulle condizione del “mio” teatro e del teatro in “genere”, sta sbagliando.

E’ vero.

Il teatro ha superato guerre e pestilenze; ma perché ci sono state donne ed uomini disposti a rischiare la vita per il teatro, e non a rischiare il teatro per la propria vita.

C’è solo un caso in cui lo streaming di eventi teatrali ha un senso: quando la ripresa si fa segno, nel senso antico del termine.

Quando serve a testimoniare che un teatro in vita è stato.E’ il caso in cui possiamo osservare spettacoli di Grotowski, Kantor, Eduardo.

Un teatro che è morto e di cui noi osserviamo le tracce.

E’ esattamente la stessa funzione che hanno i musei.

Io posso osservare un meraviglioso calice di cristallo del settecento e pensare: chissà come dev’essere stato bello berci del vino in compagnia.Posso visitare la casa degli amanti a Pompei ed affermare: chissà come si sono divertiti gli amanti in questa casa.

Posso osservare Natale in casa Cupiello con Eduardo e sua Sorella, o anche la versione con Regina Bianchi e dire: chissà come si sono dati piacere a vicenda attori e spettatori.In questo caso possiamo parlare di museificazione del teatro, va bene.

La questione è che museificare un teatro che dovrebbe essere vivo equivale ad assassinarlo; è immorale.

Certo.

Potreste obbiettare.

I nostri palchi sono pieni di teatro già morto.Capita di entrare in teatro con la stessa curiosità in cui da bambino entravo nelle “chianche” napoletane, nelle macellerie, dove corpi morti sono esposti con le budella rovesciate fuori dalla bocca affinché, guardandole, tu possa avere prova della freschezza di quei cadaveri.

Beh, questo tipo di teatro, sinceramente potete anche affidarlo allo streaming.

Tanto è già morto.

Uccidere una cosa già morta non è immorale.Certo, passare un ora a guardare in video il cadavere di un teatro morto due volte possiamo considerarlo necrofilia…ma, chi siamo noi per farne una questione morale?

Io comunque preferirei, e concludo, fare l’amore attraverso un teatro vivo.

Se, per cortesia, non me l’ammazzate tutto, io ci proverei.

Magari qualche spettatore mi ci stà.”

Intervento del 10 dicembre al convegno online sul Teatro in streaming curato dai Chille de la balanza e da Matteo Brighenti

De Maradona

  • Primo pensiero

Io ed il calcio siamo due universi distanti; quello giocato e quello tifato.

Maradona però non è stato solo questo.

Noi avevamo la camorra, è vero, ma avevamo anche Maradona.

Finiva sempre così ogni discussione con i “non napoletani” che incrociavo durante la mia infanzia.

Una volta, per esempio, ero ad Assisi, un prete, mi disse «dev’essere bella Napoli, ma io ho paura a venirci», eppure poi mi chiese se avessi mai incontrato Maradona.

In una città come Napoli quell’uomo ha conosciuto la santità che si deve a chi viene accostato al riscatto sociale; in un centro sociale a Napoli, Je so pazzo, campeggiano le immagini di Maradona e Che Guevara e, senza voler fare paragoni stupidi è chiaro, c’è un senso profondo in questo accostamento.

Dietro alle porte delle case, accanto alle foto della statua di San Gennaro, ai rosari, alle fascette di grano, c’era anche la foto di Maradona; ed era da osservare con rispetto e mistero, per me, quel gesto porgere i bambini a Maradona perché li “benedicesse” col suo tocco , o la frenesia con cui si accalcavano quando lui si fermava a giocare per strada, magari al porto, magari palleggiando con della frutta per la gioia del “suo popolo” o dei giornalisti.

Il sacro è fatto di cose così; e se molti, oggi, hanno il cattivo gusto dell’elencare la fallacia e l’umanità di Maradona, il grado di corruzione che ha raggiunto la sua figura, facciano pure.

Maradona persona non ha a che fare nulla, ma proprio nulla, con Maradona “santo” che a Napoli viene venerato.

Oggi è morto un uomo, vero, ma è morto anche un santo in vita.

  • Secondo pensiero

Di quale Maradona parlate?

Del Maradona uomo non conosciamo nulla se non quello che, nel bene e nel male, è stata cronaca.

Leggo parole come “riabilitazione” e paragoni stupidi come quello con Montanelli.

Che senso hanno certe parole e certi paragoni.Gli stupidi sono stupidi; le persone che hanno strumenti necessari dovrebbero astenersi dal giudizio su un uomo che, in quanto tale, non interessa.

Maradona è un mito.

La mitopoietica o se preferite l’agiografia sono cominciate quando era in vita; a Maradona vengono addirittura attribuiti poteri taumaturgici e qualche miracolo.Per capire di chi parliamo i paragoni possono essere il Che, Togliatti, Giovanni Paolo II, Teresa di Calcutta, i Beatles, Castro… persone la cui narrazione ha costituito un distacco profondo dalla realtà rendendoli “santi” in vita. Sapete quanti Armando o Diego ci sono a Napoli? Esattamente quanti Ernesto ci sono in Sudamerica, e le Teresa ed i Giovanni ed i Palmiro. Quante donne sono rientrate a casa dicendo di essere madri del figlio di John? Almeno quante li abbiano detto di Maradona. Esiste qualcosa che però dobbiamo osservare facendoci domande senza giudizio…non aveva l’ufficio stampa Vaticano a lavorare per lui, non aveva uno dei più grandi partiti al mondo a diffondere leggende su di lui, non aveva la grande industria dei consumi a sfruttare la sua immagine… è stato il popolo napoletano ad eleggerlo, a sceglierlo, a costruire il suo mito.

Quello del sottoproletariato soprattutto, quello che ha voluto legare al personaggio il proprio bisogno di riscatto.Giusto, sbagliato, non importa.Maradona visitava i malati, giocava con gli scugnizzi in strada, ed inventava anche aneddoti su se stesso.

Come fa un ragazzo di strada quando vuole costruirsi un’identità, aiutato dall’essere in terra straniera…come facevano la Callas e Cassius Clay o Marilin e come faceva pure il papa

Cognitio dei experimentalis

<p class="has-drop-cap" value="<amp-fit-text layout="fixed-height" min-font-size="6" max-font-size="72" height="80">

<p class="has-drop-cap" value="<amp-fit-text layout="fixed-height" min-font-size="6" max-font-size="72" height="80">Mi fanno ridere quelli che attraverso di esso arrivano a vivere la condizione del "lei non sa chi sono io". Il teatro spinge continuamente verso il "lei non sa cosa NON sono io". Mi fanno ridere quelli che attraverso di esso arrivano a vivere la condizione del “lei non sa chi sono io”. Il teatro spinge continuamente verso il “lei non sa cosa NON sono io”.

Una relazione ordinaria con quello che non sono, contrapposta ad una relazione ordinaria (quella della vita) con quello che sono. Non sto parlando ovviamente del diventare altro da me, o del personaggio; non sto neppure parlando della dimensione precaria a cui mi costringe questo mestiere.

Sto parlando del continuo “divenire” che in esso è concretezza. Quando pratico teatro io sono ciò a cui tendo, tutto il mio essere è quello che sta diventando in una dimensione di continua e perpetua tensione verso ciò che non sono ancora, o verso ciò che non sono “e basta”.

In questo il teatro è misura della relazione con il divino che mi appartiene, anzi, con il divino che sono. Anzi, è diventata questa la mia idea di divino.

Il divino è il divenire.In teatro io vivo la mia cognitio dei experimentalis; è per questo, io credo, che non riesco ad occuparmi attraverso di esso di altro che non sia la nascita e la morte.

Un quaderno nuovo

Sono di quelli che, quando sente che sta cominciando qualcosa di nuovo, compra un quaderno.Da qualche giorno ho tra le mani un quaderno nuovo; anzi, non è proprio un quaderno. E’ una sottile sfoglia di pelle marrone, leggera, in cui tre cordoncini tengono fermi tre quaderni di cartoncino, che possono essere cambiati. Un regalo di un’amica che riappare ogni tanto dal passato per non lasciarsi dimenticare.

Quando apro uno dei miei quaderni nuovi, scrivere le prime parole, diventa sempre un gesto che ha in se un peso naturale; col tempo quelle parole, le prime che noti ad ogni apertura, anche distrattamente, diventano quasi un titolo o un monito.In qualche modo è come se, quella parte della mia vita, perdesse la verginità e si compisse nello scrivere le prime parole del quaderno che le appartiene. Così il quaderno per qualche giorno è stato bianco; poteva essere mio o, ancora, di chiunque altro; non ci appartenevamo.

Qualche giorno fa ho scritto un lungo post in cui raccontavo la mia vita dal dentro di una delle sue fratture. Non pensate sia stato facile per me; per quanto possa sembrare strano amo il pudore in me e negli altri. Soprattutto negli altri; me ne innamoro.

Scriverlo è stato quindi una scelta. Più ponderata di quel che si possa immaginare.

Per molti anni il mio sbaglio più grande, di cui forse pagherò per sempre le spese, è stato lasciare che gli altri mi credessero forte. Non era così. Non era ovviamente ed umanamente così. Quando me ne sono accorto, per quanto certe cose non si possano riparare, ho fatto la scelta personale e politica di portare esposte le mie fragilità. Chi ha visto i miei spettacoli da qualche anno a questa parte se ne sarà accorto. E’ personale e politico raccontare le proprie fragilità, sublimarle a racconto collettivo, farne elemento di condivisione e, se volete, di poetica. Ce lo insegnano donne ed uomini che hanno fatto la resistenza, ad esempio; o che hanno lottato e lottano per i propri diritti. Me lo hanno insegnato attivisti politici, petali del mondo, che negli anni ho avuto modo di incontrare. Personale è politico; raccontare la mia frattura di questi giorni è anche il tentativo di scoperchiare l’umanità nascosta dietro alla narrazione, ai numeri, alla propaganda, allo stereotipo. Molti mi hanno scritto.Altri che sono nelle mie condizioni, soprattutto; ma anche colleghi, maestri, spettatori, allievi e semplici sconosciuti che hanno voluto testimoniare il loro dispiacere e soprattutto il loro sostegno. Un uomo, una persona sicuramente meravigliosa, mi ha anche offerto di sostenermi per due o tre mesi, con dei contributi, facendomi “da INPS” purché io non smetta di fare questo mestiere. Non vi dirò se ho accettato; vi dirò però che non mi ha imbarazzato. Mi sono solo chiesto cosa, non avendo nulla da dare a lui in cambio, potessi dare a tutta la comunità. Non ho ancora risposta.Voglio loro un bene grandissimo; per una fiducia preventiva in una vita di cui, al momento, io stesso non mi fido.Ho dato inizio a questo nuovo quaderno il giorno in cui abbiamo saputo della morte di Nando Taviani. E’ stato inevitabile pensare ad alcune chiacchierate, fatte assieme, quando ho fatto in modo di poterlo incontrare. Ricordo quest’uomo che ha visto tante cose, di sicuro che ha incontrato uomini straordinari migliori di me, ascoltarmi e guardarmi con uno sguardo che apriva a possibilità. Questo fanno le persone belle, i maestri; io per fortuna e per fatica ne ho conosciute tantissime, di persone così, capaci di guardarti con uno sguardo accogliente e severo allo stesso tempo, ma soprattutto con uno sguardo aperto.

Una volta, dopo che mi aveva lasciato fare una dimostrazione ai suoi allievi, l’ho salutato sbagliando e dicendo “Nando, è proprio bello che tu mi abbia incontrato”, poi mi sono corretto, e lui ci ha riso molto ed ha aggiunto “No no, hai detto bene”.

Nel viaggio in treno al rientro ho pensato a lungo a questo scambio; e forse ha ragione lui. Ci sono persone che riescono ad incontrarti in luoghi dove tu non sei più disposto ad incontrare te stesso. Ecco. La cosa che più mi fa paura di questo tempo è non avere la forza di guardare gli altri, soprattutto le persone che mi avvicinano per incontrare il teatro, con uno sguardo che gli restituisca possibilità, prospettive, immaginari da costruire.In fondo è una delle poce cose per cui riesco a sopportarmi.

Le prime parole di questo quaderno nuovo sono vecchie, vecchissime; sono un motto che mi accompagna da almeno venticinque anni e dice “chi si difende non può fare teatro”.

Non è un motto che invita alla forza; è un motto che invita alla fragilità.

Tante volte l’ho urlato come atto di fede; adesso, l’ho appuntato, come richiesta di fiducia.

A me stesso.

Dove sono i teatranti?

La situazione dei festival, raccontata molto bene dal trovafestival (come sempre), è complessa, complessissima, spaventosa.I tantissimi rinvii, moltissimi a settembre/ottobre, si trasformeranno in “assembramento” (visto che la parola è di moda) che renderà complessa la partecipazione a spettatori, critici, addetti ai lavori, al “pubblico dei festival” insomma.
Certo sono macchine economiche, dietro ci sono persone che lavorano, che devono vivere di questo e che danno da vivere ad altri; capisco bene la loro situazione.
Capisco anche che sarebbe stato difficilissimo, molto difficile, ma sarebbe stato sensato un coordinamento in grado (se ne parlava i primi giorni del blocco covid) di trasformare l’Italia in un grande festival, facendo dialogare tra loro le organizzazioni, le direzioni artistiche.
Ovviamente, ma questo chi mi conosce lo da per scontato, non posso permettermi di prendere in considerazione i festival che si terranno in “streaming” ed ancora pretendono di chiamarsi “teatrali”, perché di fatto di “teatro” non ce ne sarà, ci saranno dei “segni” del teatro; la differenza che c’è, come dicevo altrove, tra guardare un calice in un museo e berci del vino, e trattandosi di “contemporaneo” mi fa lo stesso effetto che mi farebbe se trovassi un bicchiere ikea all’interno di un museo. Abominio, per me; con tutto il rispetto dei tanti che, stando a questo elenco, hanno fatto questa scelta. Anche io oggi ho cucinato, e mi è venuto anche bene; ma non pretendo di chiamarlo teatro quando a tutti gli effetti è “altra cosa”. Un tempo avrei detto “muoiano i teatri, viva il teatro”; nel senso che se per noi il teatro è un atto di fede dobbiamo anche essere disposti a sacrificare le nostre possibilità e le nostre aspettative per tenerlo in vita, anche attraverso il silenzio, anche attraverso l’annullamento. Basterebbe dire ad alta voce che si sta facendo “altro”; non parlare di “fare teatro ai tempi del coronavirus” ma di “fare altro finché il coronavirus non ci permetterà di fare teatro”; solo che, questo, vorrebbe dire perdere la propria collocazione, probabilmente parte dei propri finanziamenti, ed allora scegliamo (legittimamente, assolutamente legittimamente) di travisare il teatro pur di non travisare noi.
Questo “assembramento” e questo “deturpamento” parlano di una categoria, a cui appartengo assolutamente anche io, in rari casi capace di ripensarsi, di uscire dai propri tracciati di sicurezza, rompere i propri potentati e modificare il loro approccio tenendo fede, chiaramente, al teatro. Ecco; questa la mia delusione profonda.Mi sarei aspettato dagli artisti che ci si comportasse da artisti; invece molti di noi hanno assunto col tempo, per necessità e per opportunità, un modus operando così impiegatizio da non riuscire ad essere “altrimenti”.
Non è un j’accuse eh, non mi ho voglia di essere frainteso come ogni volta che parlo in modo esplicito di queste cose; casomai è un “ci” accuse.
Abbiamo inseguito bandi di ogni tipo e su ogni tema, performando noi stessi, il nostro teatro, i nostri temi, pur di “accaparrarsi” il finanziamento, il contributo che ci consente di lavorare (questo non lo dimentico).
Felici abbiamo accettato di essere allevati in cattività; abbiamo chiamato tutto questo “saper fare”, se riuscivamo ad arrivare primi alla mangiatoia ci consideravamo gente che “sa come va il mondo”, se non riuscivamo ad arrivare primi alla mangiatoia eravamo frustrati.
Non siamo più abituati ad avere un rapporti libero e vitale con la creazione; eravamo artigiani, ci siamo ritrovati in catena di montaggio, senza accorgercene.Anzi, molti di noi non se ne sono ancora accorti.Io stesso non so esattamente a che linea sono assegnato.
Pochi sono gli esempi, che vedo, di persone che stanno cercando (anche ritornando “piccoli”) di tornare ad agire come teatranti; che stanno approfittando di questa situazione per migliorarsi mettendo a rischio quanto hanno raggiunto faticosamente negli anni.
A loro va tutta la mia fiducia e, se posso azzardare la parola, il mio amore; gli altri non hanno bisogno né della mia fiducia, né del mio amore, perché sono bazzecole rispetto a quello che hanno già.
https://trovafestival.com/2020/03/05/i-festival-si-tempi-del-coronavirus/e

Digressione

Non sapendo cosa dare, ho chiesto.

“Ho chiesto da subito scusa ai miei allievi; ho vissuto quasi come se facessi loro un torto la scelta, a cui non sono riuscito a venire meno, di interrompere gli appuntamenti con la bottega teatrale di Accademia Minima nel momento in cui ci è stato proibito di condividere lo stesso spazio. Nei primi giorni, quando era in vigore solo un primo distanziamento, abbiamo continuato a lavorare analizzando proprio il distanziamento, applicandolo rigidamente durante gli esercizi, per vedere cosa potesse cambiare nei nostri corpi senza però correre rischi. Abbiamo seguito le regole che ci venivano date, umilmente, senza né eccedere in preoccupazione né metterci a rischio. Finita la compresenza dei corpi nello spazio l’unica cosa che io potessi realmente, in coerenza con quello che per me è teatro, offrire ai miei allievi era il blocco ed il silenzio. Abbiamo conservato esclusivamente la relazione sociale, chiacchierando attraverso i vari mezzi che abbiamo a disposizione. Ho registrato loro dei podcast portandoli con me a conoscere colleghi ed artisti che vivono attivamente la scena contemporanea italiana. Abbiamo parlato di teatro, abbiamo visto documentari di teatro, riprese di vecchi spettacoli, ma non abbiamo “ridotto” al teatro per seguire delle nostre necessità. Perché era l’unica condizione possibile senza voler bluffare con noi stessi e tenere fede a quella citazione di Leo De Berardinis che spesso ci siamo ripetuti. Così non c’è stato teatro tra noi, come ancora non c’è. E’ nato però altro; davanti alla mia incapacità di dare loro qualcosa ho chiesto loro qualcosa. Mi hanno mandato dei file audio, registrati al cellulare. Li ho montati per darci la gioia, chiudendo gli occhi, di essere per quaranta minuti circa in sala assieme a lavorare. Ad un teatro travisato abbiamo preferito un “non teatro” sincero e reale. Abbiamo, dopo averlo ascoltato assieme, deciso di condividerlo con tutti i nostri contatti. E’ necessario usare delle cuffie, possibilmente di buona qualità, e sarà possibile stare un po’ di tempo in compagnia della bottega di Accademia Minima. Un abbraccio a chi c’è stato, ed a a chi ci sarà.”

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